I protocolli in Medicina sono delle procedure elaborate rispetto a un obiettivo terapeutico o diagnostico da raggiungere, nel bene del paziente e del medico curante.
La Medicina è qualcosa di molto diverso dalla Psicologia, tuttavia è giusto che la Psicologia prenda a prestito dalla Medicina delle procedure che funzionano.
Purtroppo, se a volte è difficile applicare dei protocolli medici, lo è ancora di più con l'applicazione di un protocollo psicoterapeutico o psicodiagnostico.
Il protocollo, essendo una serie di azioni pianificate a monte, viene visto con sospetto sia dai pazienti che dagli psicologi stessi a volte, in quanto viene vissuto come un modo per ridurre l'unicità del paziente e intrappolarlo in categorie strette che non ne rispettano l'individualità.
Questo è un discorso che vale solo per alcuni protocolli, ovvero quelli scadenti o quelli applicati dal clinico incapace o troppo rigido.
Ripeto che la Psicologia è qualcosa di diverso dalla Medicina.
Lo psicologo lavora con l'individualità e l'unicità del paziente e deve farci i conti.
Ogni paziente può essere diverso da un altro paziente, ma l'unicità di una persona si nota molto meglio confrontandola con altre persone utilizzando lo stesso metodo di lavoro.
Un protocollo ci dice cos'è giusto e cos'è sbagliato, non è detto che dobbiamo seguirlo come una Bibbia, bisogna sempre calcolare l'evenienza che si stia un protocollo sbagliato, sennò finiamo come una persona che imbocca un senso vietato solo perché ha seguito un navigatore satellitare non aggiornato rispetto alle regole di circolazione della città dove ci troviamo. Dobbiamo sempre tenere d'occhio il paziente, per vedere come sta, come vive il percorso che stiamo facendo insieme, per vedere se stiamo sbagliando. Ma rifiutare un protocollo è come rifiutare di usare la mappa o il navigatore per principio o per luddismo. Non dico che non si riuscirà mai ad arrivare a destinazione, ma magari ci si mette molto di più. E ci rimette specialmente il paziente, solo perché avevamo paura che lui non si sentisse come unico.
Uso coi miei pazienti un modello di lavoro che segue quello che veniva applicato durante il mio tirocinio al Forlanini e che andrebbe - in teoria - applicato in tutti i Servizi pubblici: una fase di assestment (3-4 incontri) e il percorso terapeutico vero e proprio (a partire da un pacchetto di 8 incontri).
Prima valuto com'è il paziente, qual è il suo equilibrio psichico e come il disturbo psicologico lo sta destabilizzando. Faccio riferimento a un modello Psicodiagnostico riconosciuto a livello internazionale, ma questo non vuol dire che non riconosco l'unicità del paziente!
Alla fine di questi incontri, quando avrò capito, mediante test e colloqui che tipo di psicopatologia mi trovo di fronte, pianificherò un protocollo focalizzato sul disturbo in questione, che sia Depressione, Ansia, Attacchi di Panico, Disturbi di Personalità etc...
A differenza della Medicina, la Diagnosi in Psicologia è un processo che può essere in sè curativo nei confronti del paziente, cosa che in Medicina non c'è (una colonscopia o un prelievo sono procedure invasive e dolorose e non curano niente).
Non è detto che alla fine di un assestment io mi ritenga in grado di curare il paziente, perché potrei aver scoperto prima della fine di quei 3-4 incontri che non sono in grado di curare il paziente per motivi non di mia competenza (ad esempio, una patologia medica a monte del disturbo psicologico o ben più grave) o che ritengo troppo difficili da trattare senza l'intervento di altri professionisti (per esempio, se mi trovo di fronte a un paziente psichiatrico grave non in trattamento farmacologico).
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