La rabbia è un'emozione primaria, naturale e affascinante.
Molti la condannano, altri la permettono solo in alcuni soggetti e in alcuni casi, condannandola in altri, all'interno di un doppio standard discutibile. Cognitivamente parlando la rabbia è ciò che proviamo quando sentiamo un'ingiustizia. Chi è arrabbiato crede sempre di avere ragione.
Lo crede, non è detto che abbia effettivamente ragione.
Per questo Confucio dice che, sia in caso di torto o di ragione, non ci dovremmo mai arrabbiare.
Ci stanno invece modelli che rinunciano alla soppressione di tale emozione.
Un modello abbastanza stagionato, ma con la sua coerenza interna è quello idraulico.
Un'emozione (o una pulsione) emette una pressione che richiede il suo sfogo e soddisfacimento.
Sfoghiamoci e questa tensione si sfiata.
Vedo una persona che (credo che) mi guardi male, la picchio e sono felice.
Anche questa è una filosofia affascinante. Un po' ruvida.
Se vogliamo proporre (non imporre) un altro modello è quello per il quale molte emozioni e molti comportamenti a esse legati non si esauriscono una volta sfogati.
Possiamo picchiare tutti quelli la cui esistenza ci disturba o che riteniamo causa dei mali nostri, nel mondo e verso le nostre persone più care.
Saremmo inizialmente molto soddisfatti all'inizio.
Ma, anche se riuscissimo a punire tutti coloro che per noi meritano una punizione, ipotizziamo che ci sarebbe ancora una porzione di insoddisfazione in noi, con una tendenza al rimuginìo che la rialimenta.
Perché la rabbia genera rabbia e la violenza genera violenza.
Se proprio dobbiamo sfiatare questa rabbia cerchiamo di contingentarne lo sfogo, come per lo sfiatatoio di una pentola a pressione, non tappandola fino alla sua esplosione o aprendo il tappo all'improvviso e sfogarci caoticamente.
Chiaramente non è facile, ci vogliono auto disciplina e capacità di auto-osservazione o quantomeno la fiducia nei confronti di persone sensibili ed emotivamente competenti, senza allontanarle o fidarsi al contrario di soggetti incapaci e/o disonesti.






